• IL FORTE DI CIMA CAMPOLONGO
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IL FORTE DI CIMA CAMPOLONGO

In occasione del centenario prosegue il nostro viaggio nei luoghi simbolo della Grande Guerra. Scortati da Gianni Frigo dell’associazione Guide Altopiano, vi accompagniamo in una delle fortezze militari che furono costruite a difesa del confine italiano contro l’impero austro-ungarico. Un luogo ideale per comprendere la ‘guerra d’inverno’.
Scendendo da Albaredo (Aspach = pioppo, in cimbro) verso Rotzo si incontra sulla destra villa Fusetti, una vetusta costruzione che nonostante la trascuratezza nella manutenzione denuncia le sue aristocratiche origini “liberty”. Proprio di fianco ad essa si stacca la strada comunale “del Monte” che, dopo aver toccato una serie di luoghi dai nomi molto suggestivi (tellale = valletta, bassar = acqua, hemmara = elleboro nero, sorgente volvastal = sorgente della valle del lupo) e costeggiato alcune gallerie che recano ancora incise sulle pietre crollate dell’entrata i nomi degli ufficiali Austro-Ungarici che comandavano le batterie di cannoni, qui postate nell’ultimo periodo della Grande Guerra, raggiunge in località Spiazzo Garibaldi la Val Martello e la strada che qui sale da Mezzaselva, l’unica agibile durante l’innevamento dei mesi invernali visto che conduce alle piste da sci del comprensorio Verena-Campolongo.
Da qualche anno un comodo parcheggio permette di lasciare qui l’automobile e intraprendere la salita a piedi o con le ciaspe della strada militare che passando per la ex casera Prà Tedeschi (così chiamata dal soprannome di uno Slaviero Francesco, detto “Cruc”, citato già nella Guida Storico-Alpina di Bassano-Sette Comuni pubblicata nel 1885 da Ottone Brentari) e costeggiando lo Scoglio Brutta Bisa (brutta bisa = prato brutto, prato pericoloso: e vorrei ben vedere, situato com’è sulle cenge di una parete verticale che sprofonda verso la Val d’Astico) conduce prima alle cisterne e poi all’entrata in galleria del Forte di Cima Campolongo. 
A dir la verità questa in galleria sarebbe, per così dire, l’entrata “merci” del Forte: di qui passavano i cannoni, le munizioni, i viveri, i materiali pesanti ed ad altro ingombro che servivano alla guarnigione.
L’entrata “pedonale” infatti era un’altra: dal penultimo tornante della strada in corrispondenza dell’attuale bivacco “Cafelatte”, che altro non è che la ex “Residenza Ufficiali” del Forte, un sentiero si stacca verso sinistra e dopo aver aggirato lo spigolo di un costone porta su una cengia in piena parete che conduce con un percorso piuttosto “aereo” alle Casermette della Truppa.
Quasi alla fine della galleria di ingresso al Forte, sulla destra, si apre l’accesso alla santabarbara, cioè al deposito delle munizioni e degli esplosivi: scavato lontano dalle postazioni di tiro dell’opera principale e sepolto dentro alla roccia viva della montagna in modo tale da essere assolutamente riparato dall’eventuale tiro avversario.
 Oltrepassato il posto di guardia si accede al cortile interno del Forte che, pur essendo rivolto a sud e quindi defilato dal tiro teso dei cannoni del nemico era pur sempre soggetto ai colpi degli obici e dei mortai (artiglierie a tiro curvo) dell’avversario. Per questo, quando si entrava in battaglia e si era soggetti al fuoco avversario, tutti gli spostamenti avvenivano attraverso poterne e corridoi in modo da essere il più ripararti possibile rispetto ai colpi avversari. Certo che il riparo era relativo in quanto al momento della costruzione dei forti corazzati italiani non era stato correttamente previsto l’enorme balzo in avanti che la tecnologia delle artiglierie avrebbe avuto negli anni immediatamente successivi alla loro costruzione: fatti per resistere alle granate di cannoni dal calibro  equivalente a quello che li armava, e cioè il 149 mm, o di poco superiore come il 240 mm i nostri forti furono bombardati in realtà da obici Skoda da 305 mm, da cannoni da 350 mm o addirittura da mortai da 420 mm.
Alla prova dei fatti le fortezze italiane, pur dominando all’inizio nella cosiddetta “guerra dei Forti”, non riuscirono a supportare efficacemente l’avanzata delle nostre fanterie contro le strutture avversarie della cintura corazzata che Conrad, il comandante in capo dell’esercito austro-ungarico, aveva voluto per difendere Trento.
L’enorme volume di fuoco riversato sui forti avversari, tale da far dire a qualcuno che i forti austriaci erano costati più a noi italiani nel distruggerli che agli austro-ungheresi nel costruirli, si rivelò totalmente inutile non appena vennero messi in posizione da parte dei nostri avversari pezzi di artiglieria più moderni e mobili dei nostri, ancorati nelle loro postazioni fisse che ne divennero il sarcofago. Deve però rimanere la memoria di tutto ciò ed il monito in essa contenuto: le guerre non hanno vincitori, ma solo sconfitti.
0 0 3305 04 febbraio, 2015 NOTE DI VIAGGIO febbraio 4, 2015

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